Dall’uva Timorasso…
ai grandi vini Derthona Timorasso fatti dai vignaioli del territorio.
E l’aceto di Timorasso (o di Barbera, di Pecorino, di Verdicchio, di Fiano….)? Perché dev’essere clandestino e senza nome? Perché non può essere un grande aceto di un grande vignaiolo che ci mette la sua sensibilità e la sua faccia come nel vino?
“Il vino da sempre è considerato un bene superiore per la qualità che esprime, la naturalità con cui si ottiene, la storia che lo racconta e che racconta… e anche grazie al fatto non ha un padre né una madre”: così Walter Massa, il papà del mitico Timorasso, introduce un tema – quello della liberalizzazione della produzione di aceto da parte dei vignaioli – che da sempre lo appassiona ed è diventato di attualità (o sarebbe diventato di attualità?) se le emergenze causate dal Covid fossero state e fossero nei prossimi mesi affrontate con un po’ di raziocinio e non con esclusivo, inutile e supponente tran tran burocratico.
“Il vino comunque – prosegue Walter – si ottiene dall’uva, la nostra cultura è legata al vino persino nelle religioni che lo contemplano dandogli un significato molto importante. Difficilmente il nostro immaginario collettivo lo accetta con innovazioni al passo con i tempi come le alternative al sughero o i brick, tant’è che il fatto che dall’uva il risultato finale non sia il vino ma l’aceto è sempre stato visto come un fattore di negatività, come vino andato a male, poichè la massima espressione del vino è sempre stato il consumo diretto non il condimento o l’ingrediente.”
La legislazione italiana ed europea vieta ai vignaioli e produttori di vino di mettere in commercio il risultato di una successive fermentazione o perlomeno ne complica in modo tale le regole da renderlo pressoché impossibile o eccessivamente oneroso. “Intendiamoci – precisa Massa – la scelta è stata di natura igienica perché nei secoli scorsi la possibilità di sanificare le cantina non era come ai giorni odierni”. Se poi torniamo ancora più indietro nel tempo scopriamo che i consoli e i centurioni romani di fatto bevevano aceto chiamandolo vino e i grandi signori del Rinascimento nei loro fantasmagorici banchetti erano costretti ad aggiungere miele al vino.
Ma ormai è cambiato tutto: grazie alle attenzioni che si sono sviluppate nel mondo del vino e dei distillati diventa interessante proporre anche aceti diversi in base alla straordnaria diversità di vitigni, di vini, di territori, di abilità…
“Chi meglio dei vignaioli – conclude Walter – che conoscono bene l’uva possono affrontare questa nuova frontiera e soprattutto nuova risorsa che potrebbe aprirsi se solo le normative si adeguassero ai tempi e ai bisogni”: il Covid, nella disgrazia potrebbe essere (o potrebbe essere stato) l’occasione.
Di certo un uomo da solo non può portare avanti una simile battaglia, occorrerebbe che lo facessero le associazioni di settore, in particolare la FIVI che ne rappresenta la parte più autentica e legata a territori e diversità.
I primi a esserne entusiasti sarebbero i ristoratori che comprano aceti degli acetaioli in provetta o dei taroccatori di aceto balsamico dozzinale protetti da una IGP che premia chi avvelena con E150d a danno di chi invece lavora con il mosto cotto. Poi i ristoratori usano gli aceti industriali per pulire i pavimenti e cucinano con l’aceto segreto fatto in casa e tenuto ben nascosto sperando che l’ASL o i Nas di turno si accontentino di vedere le fatture d’acquisto delle porcherie. Mentre in tavola solo aceto balsamico, vero o sedicente tale. Sarebbe invece una manna aggiungere ai cartoni di vino acquistati un cartone di aceto firmato e fatto dal vignaiolo che propone un grande vino Nero d’Avola e l’aceto di Nero d’Avola, o un grande Derthona Timorasso e l’aceto di Timorasso, o ancora un grande Brunello e l’aceto di Sangiovese… Senza tanto spendere, quasi in modo automatico, ecco così la carta degli aceti.