No al ridicolo semaforo in etichetta

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Ripubblichiamo, in quanto oggi ancora più di attualità, parte di un articolo scritto quando Walter Ricciardi, consulente del ministro della salute Speranza per l’emergenza Covid e tifoso viscerale del lockdown, ha firmato un appello a favore dell’applicazione obbligatoria in tutta Europa del Nutri score, un sistema scientificamente assurdo e letteralmente MORTALE per l’agroalimentare italiano e per tutta la nostra economia.

Banalità e arretratezza culturale e scientifica

Ammesso e non concesso sia stata fatta un’analisi precisa delle componenti del prodotto, è facile dimostrare che è un indicatore sbagliato semplicemente rilevando che risulterebbe che la Coca cola light sarebbe più salubre del Parmigiano e, addirittura, dell’olio extra vergine d’oliva.

E soprattutto è facile dimostrare che non ha alcuna utilità perché il problema – secondo gli scienziati veri e aggiornati – non è il banale fattore numerico su quanti carboidrati, quanti grassi e via dicendo, ma è un problema qualitativo, ovvero il valore degli ingredienti in base al loro processo produttivo sia in agricoltura sia nella trasformazione. Un indicatore veramente utile sulla qualità nutrizionale di un prodotto starebbe nel suo contenuto in empty food (cibo vuoto), ovvero privato, a causa di eccessiva trasformazione in agricoltura e manipolazione nel processo produttivo, dei preziosi microelementi bioattivi. Oltretutto si tratta di quei microelementi importanti per le nostre difese immunitarie che sarebbero stati utilissimi per difenderci dal Covid (e il signor Walter Ricciardi non ha minimamente puntato su una corretta informazione per favorire un’alimentazione più ricca – o meno povera – di immunoprotettivi).

I sostenitori del Nutri score, in gran parte “tifosi” del vetusto concetto che contano soprattutto le calorie, sostengono che il paragone va fatto a parità di tipologia di cibo, per cui l’olio extra vergine d’oliva, classificato con la C, ovvero il giallo, è classificato meglio di tutti gli altri grassi.

Ma hanno una pur minima idea, costoro, di come si comporta il consumatore medio? Chi legge comunemente le etichette e sta attento a quello che compra, ovvero ne capisce qualcosa, non ha certo bisogno del “semaforo”, gli altri si limitano a guardare il colore, di qualsiasi tipo di cibo si tratti, riempendo il carrello di roba A, ovvero con semaforo verde, magari inquinata da ogni sorta di additivi, rifiutando rossi e arancioni (soprattutto ai tempi della sprovveduta presa di posizione di Ricciardi, quando anche l’arancione, causa Covid, era un colore tabu) e mettendo nel carrello prodotti gialli solo se fossero insostituibili.

Cos’è il Nutri score?

Il pericolo per la salute e l’agroalimentare di eccellenza del Nutri score sta soprattutto, ma non solo, nel semplicismo, nella mancata considerazione della complessità del corpo umano e deila diversità degli individui oltre che delle motivazioni psicologiche che guidano le scelte dei consumatori.

Il Nutri score è una sorta di semaforo con 5 invece di 3 colori corrispondenti alle lettere da A a E.
In un complesso algoritmo vengono inseriti gli ingredienti che, in teoria, farebbero male (grassi, saturi in particolare, zucchero, sale e via dicendo) e quelli che farebbero bene (legumi, verdure e via dicendo). L’algoritmo elabora un punteggio che corrisponde a uno dei 5 colori: il verde intenso, ovvero la A, indicherebbe un prodotto che, in teoria, farebbe benissimo, il rosso, avvero la E, un prodotto che, in teoria, farebbe malissimo.

In ogni caso è un sistema applicabile solo ai prodotti industriali per i quali, grazie ai grandi numeri e alla standardizzazione, è possibile l’analisi di laboratorio approfondita per ogni lotto. I dati immessi per definire il colore sono invece inaffidabili per i prodotti artigianali per i quali non è ipotizzabile per banali motivi economici l’analisi per ogni lotto. mentre le tabelle dei vari enti (oltretutto spesso in contraddizione tra loro) non offrono dati veritieri: per esempio, com’è possibile un calcolo anche approssimativo della proporzione di acidi grassi saturi e polinsaturi nel grasso di un maiale o di un formaggio? Cambia – e spesso in modo molto significativo – in base alla razza, al tipo di allevamento. all’alimentazione, all’età, alla stagione… E quanta differenza c’è nel contenuto effettivo di zuccheri di una confettura o di una salsa di pomodoro artigianali? Dipende dall’andamento climatico, dall’esposizione del frutteto o dell’orto, oltre che dalla cultivar e via dicendo.

Ma sarebbe corretto? Anche ammesso e non concesso che i parametri scelti abbiano davvero solide basi scientifiche in linea con le moderne ricerche sulla nutrizione, un ragazzino in via di sviluppo che gioca e corre all’aperto o un contadino che zappa hanno le stesse esigenze nutrizionali di un colletto bianco che fa un lavoro sedentario e occupa il tempo libero davanti alla tv?

Siamo certi che sarebbe saggio togliere il burro o una sana fetta di salame a un giovane attivo? O la giusta quantità di alimenti energetici, zuccheri compresi, a un atleta?

Quello che conta, per una persona senza particolari patologie, è quale zucchero, quale farina, quale formaggio, persino quale bistecca alla fiorentina. E quanto ne mangia.

E chi ha particolari patologie potrebbe trovare un alimento dannosissimo tra quelli verdi, per esempio gli spinaci sono fortemente controindicati per chi è portato all’osteoporosi o a problemi renali, o anche per chi si è rotto una gamba ed è ingessato in attesa che le ossa si aggiustino.

Ogni generalizzazione è di per sé un’autentica stupidaggine ed è pericolosa di fronte alla complessità del nostro organismo.

Serve trasparenza sulle provenienze degli ingredienti, serve facile rintracciabilità, e serve soprattutto un’informazione corretta e non tendenziosa, non servono generalizzazioni fuorvianti: c’è già la barzelletta dell’etichetta nutrizionale a inquinare le etichette (ma di questo parleremo un’altra volta), non aggiungiamo altra confusione.

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