“Parigi val bene una Messa”, è la frase che rese famoso uno dei tre protagonisti, allora Enrico III di Navarra, della guerra dei tre Enrichi, un momento fondamentale – siamo negli ultimi anni del XVI secolo – della storia di Francia. Definita guerra di religione (ovviamente gli interessi erano ben altri) si concluse con il nostro Enrico, capo degli Ugonotti (calvinisti), che, anche grazie a una spettacolare ma ambigua abiura, diventa re di Francia. Diventò così Enrico IV di Borbone inaugurando una dinastia di re che durerà, pur con la parentesi napoleonica, due secoli e mezzo. Chissà se, in quel 31 maggio 1610 in cui passò a miglior vita, questa sua furbata gli fu perdonata?
Ci fu tuttavia una buona azione a intercedere per lui, almeno secondo una storiella assai curiosa: in un anno di carestia permise ai contadini di cibarsi di un pregiato e prezioso spinacio selvatico fino ad allora riservato alla mensa reale!
Fu così che la pianta che ci dona questo salutare alimento ebbe da Linneo nel Systema naturae (inizio di pubblicazione nel 1735) il nome di Chenopodium bonus-henricus.
Il buonenrico è un parente stretto dello spinacio, si può anzi definire lo spinacio di montagna. Ha almeno una cinquantina di nomi dialettali diversi – orapi, paruch, cugoi, gasala, farinella… – ed è tipico dei terreni grassi che stanno a valle delle malghe e delle stalle di montagna.
In quasi tutte le valli alpine e in gran parte di quelle appenniniche le foglioline giovani, tipiche perché cosparse di una bianca e ruvida farina sulla pagina inferiore, vengono raccolte e utilizzate per gli gnocchi verdi (strangolapreti), contorni saltati al burro, ripieni di ravioli, risotti e via dicendo. I piatti col buonenrico, a parte gli indubbi pregi nutrizionali simili ma superiori, grazie agli ambienti più sani di crescita, a quelli degli spinaci coltivati, hanno una freschezza del tutto particolare, si può dire che sappiano di natura: se una malga o un ristorante li propone sono assolutamente da non perdere.
Raccoglierli non è facile come una volta perché – come per certi funghi – ormai i raccoglitori anche di città si sono moltiplicati. Ma con buone gambe che permettono di raggiungere gli alpeggi dove non si arriva in auto si può ancora riempire il cestello pur di arrivare al momento giusto perché quando cresce troppo diventa duro e amaro.
Lontano dalle malghe e ad altitudini più basse il buonenrico viene sostituito con il farinaccio (Chenopodium album), uno spinacio selvatico invadente in tutti gli incolti e vicino ai muri delle case. Ha anch’esso la pagina inferiore delle foglie farinosa, ma è meno carnoso e robusto, rende molto meno per gusto e consistenza.
Strangolapreti di buonenrico e salvia di prato
- 800 g di buonenrico (Chenopodium bonus-henricus)
- 200 g di salvia di prato (Salvia pratensis)
- 250 g di pane raffermo
- 4 cucchiai di farina “00”
- 2 uova
- latte fresco intero
- pangrattato
- 3 foglioline di menta
- formaggio grana grattugiato
- burro
- noce moscata
- sale e pepe
Facciamo appassire le erbe lavate e non sgrondate in una pentola coperta, scoliamole, strizziamole. Inzuppiamo il pane nel latte. Passiamo nel tritacarne il pane ammollato nel latte e le erbe. Uniamo a questo impasto le uova, due cucchiai di formaggio grattugiato, la farina, noce moscata, sale, pepe e aggiustiamo la consistenza con il pangrattato. L’impasto deve risultare morbido ma non liquido. Portiamo a bollore abbondante acqua salata e facciamo cadere l’impasto a tocchetti aiutandoci con una sac-à-poche senza beccuccio. Gli gnocchi saranno cotti quando verranno a galla: raccogliamoli con un mestolo forato. Condiamoli con burro, cannella in polvere e formaggio grattugiato.