Olivicoltura e cambiamenti climatici

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È appena stato pubblicato un trattato internazionale assolutamente completo per quanto riguarda la botanica e la tecnica colturale dell’olivo. Una vera e propria opera magna sia per la completezza dei contenuti sia per la straordinaria “squadra” di autori internazionali, il Gotha del settore. A pubblicare il volume, sia in cartaceo sia on line è la CABI Digital Library di Wallingford nell’Oxfordshire, l’editor è il professor Andrea Fabbri, già ordinario di Arboricoltura e Coltivazioni Arboree, e preside del corso di laurea in Scienze Gastronomiche dell’Università di Parma, nonché amico prezioso dell’Accademia delle 5T. Il Professor Fabbri è autore egli stesso di alcuni capitoli e coordinatore del lavoro dei colleghi. Il testo è visibile all’indirizzo https://www.cabidigitallibrary.org/doi/book/10.1079/9781789247350.0000, e, idea innovativa e davvero interessante, è anche scaricabile come pdf capitolo per capitolo (nel link l’indice dei capitoli con il “bottone” per scaricarli).

Approfittiamo dell’occasione per affrontare con il professor Fabbri un tema di grande attualità: l’influenza del cambiamento climatico sull’olivo ricordando anche alcuni interventi “storici” in suoi lavori di anni fa che offrono spunti interessanti.

Il professore, infatti, allora ci mostrò una mappa della presenza dell’olivo nel corso dell’ultimo millennio in Italia del Nord. L’areale coinvolto comprendeva gran parte dell’Emilia e persino il Piemonte. I toponimi dimostrano una maggior presenza dell’olivo in molte aree addirittura prealpine dove, del resto, in parte sta tornando. Quindi ci sono già stati anche in tempi relativamente recenti cambiamenti climatici che hanno modificato l’areale dell’olivo, tuttavia allora come oggi l’olivo è rimasto una coltura primaria nelle regioni che potremmo definire mediterranee. Ciò ci può tranquillizzare o ciò che avviene, o più esattamente si prevede avvenga, nei prossimi decenni potrebbe essere molto diverso e creare seri problemi all’olivicoltura anche nei territori tradizionali?.

La recente espansione dell’olivo nel Nord Italia – ci racconta Andrea Fabbri – è stato un movimento che ha coinvolto tutte le regioni. Il movimento è stato favorito soprattutto dal riconoscimento degli aspetti salutistici dell’olio extravergine di oliva (che d’ora in poi chiamerò semplicemente olio; internazionalmente si usa l’acronimo EVOO). In effetti il clima aveva iniziato a cambiare già da molti anni, ma ciononostante gelate ci sono state molto gravi, come quella del 1985, e anche nel 2008-09. Da allora non si hanno notizie di freddi intensi, che sono ovviamente particolarmente esiziali quanto più tardivi nella stagione. Freddi di dicembre/gennaio raramente fanno danno, e non comunque da distruggere interi alberi. Non credo che l’espansione dell’olivo a nord comunque possa raggiungere livelli significativi, non tanto per gli areali possibili, quanto per una comunque scarsa tradizione di consumo dell’olio. Come areali invece non ci sarebbero problemi, gli spazi adatti sono molto ampi”.

Ma ci sono territori italiani vocati all’olivicoltura più a rischio di altri a causa dei cambiamenti climatici? “Beh – prosegue il professore – naturalmente nella misura in cui le alte temperature possono danneggiare, i primi saranno quelli più a sud e in zone pianeggianti. Però bisogna distinguere in funzione del tipo di olivicoltura. Quella tradizionale, seccagna, che è stata l’unica fino a qualche decennio fa, ha una grande capacità di resilienza: la pianta che riceve solo acqua piovana negli anni approfondisce le radici fino a un livello nel quale l’umidità è sempre sufficiente per la sopravvivenza. A questo va associato il fatto che l’olivo ha fabbisogni, e consumi, di acqua inferiori a quelli delle altre piante da frutto, inclusi drupacee e agrumi. Se pensiamo che l’olivo è coltivato in nord Africa (Marocco, Tunisia, Algeria, Libia, qualcosa anche in Egitto), è ovvio che saranno quegli impianti i primi eventualmente a soffrire. Altro è il discorso per la nuova olivicoltura intensiva e superintensiva, delle quali non posso dare qui dettaglio. Sono comunque impianti con un alto numero di piante, che sono spinte ad alte produzioni grazie all’irrigazione. Queste ovviamente dipendono dalla disponibilità di acqua, e consumeranno sempre più acqua con l’aumento delle temperature medie.

Nel territorio dove abito, ovvero in un’area collinare tra Piemonte e Lombardia, da qualche anno le albicocche e le pesche fioriscono in anticipo per il caldo precoce, poi arrivano gelate tardive (o più che tardive normali se guardiamo al passato) e la fioritura va a pallino, senza contare lo squilibrio nell’attività delle api. Il risultato? Niente albicocche e pesche in molti frutteti, soprattutto di fondovalle. Si tratta di un evento che in passato era rarissimo, salvo che per i mirtilli in montagna. È questo uno dei rischi che corrono gli olivi?

Ci aiuta ancora Andrea Fabbri. “Certo, il meccanismo è quello. Ma se l’impianto viene fatto negli ambienti più favorevoli il pericolo è contenuto. Per le api, la cui carenza è un problema in generale, l’olivo non ha problemi in quanto l’impollinazione è operata dal vento.

Di conseguenza quali sono i problemi da affrontare se il cambiamento climatico procede come gli studiosi ipotizzano? “È molto semplice: o molta acqua a disposizione, o tornare alla coltura seccagna, meno produttiva ma più resiliente. Naturalmente se il cambiamento è ragionevole e graduale; certamente nei prossimi decenni non ci saranno rivolgimenti improvvisi.”.

Cosa può fare la ricerca per prevenire gli eventuali danni del cambiamento climatico? Soprattutto cosa può fare anche in tempi brevi, almeno per tamponarli? “La ricerca- precisa il professore – è già molto attenta al problema: si lavora su tecniche di somministrazione di acqua che utilizzi al massimo le quantità più piccole possibili di acqua (deficit irrigation), sulla potatura e la forma di allevamento, e altro. Però molto importante, come sempre, è lo studio della biodiversità della quale l’Italia è particolarmente ricca (noi possediamo la metà di tutto il germoplasma olivicolo esistente nel mondo). Possiamo individuare genotipi particolarmente funzionali alla nuova situazione ambientale (che erano stati dimenticati e quasi perduti perché poco adatti alla moderna olivicoltura), e utilizzarli come tali, o in programmi di miglioramento genetico.”

Il cambiamento climatico, oltre naturalmente alle scelte politico-economiche di paesi più o meno emergenti (Cina, Brasile e via dicendo), può cambiare in modo significativo l’areale mondiale dell’olivo? E in particolare quello italiano?

Vale lo stesso discorso che abbiamo fatto per il nord Italia: dipende dalla richiesta di olio come alimento salutistico, come d’altronde riconosciuto dall’EFSA. Per mia esperienza posso dire che questo sta avvenendo, per esempio, in Australia, dove la coscienza dei vantaggi derivanti da una dieta a base di olio da olive, associata a una forte presenza di immigrazione Mediterranea dell’ultimo mezzo secolo, ha causato un piccolo boom di impianti. Altrimenti non credo che l’espansione, che ci sarà, sarà travolgente. Però, ancora relativamente al cambiamento climatico, si può dire che l’olivo è avvantaggiato rispetto ad altre piante da frutto. È ovvio che le specie arboree adatte anche a situazioni di siccità e di mancanza di irrigazione saranno avvantaggiate (pistacchio, macadamia, mandorlo, fico, ecc.)”

– Pare che la Cina, appunto l’Australia e vari paesi dell’altro emisfero stiano investendo molte risorse nell’olivicoltura: queste risorse sono indirizzate anche tenendo conto dei cambiamenti climatici? Possono essere utili anche a noi i dati che le indirizzano? “Stiamo lavorando a un altro testo che si occuperà proprio dell’olivicoltura nel mondo. Speriamo di avere entro un anno o poco più un quadro aggiornato. Certamente tutti i dati sperimentali sono utili per tutte le situazioni, una volta aggiustato il dato alla specifica situazione.”

 

 

 

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