In queste settimane siamo di fronte a una differenza epocale tra i vari movimenti che potremmo definire di piazza: la protesta dei “trattori” è accolta con solidarietà quasi unanime dalla popolazione, le voci che ne lamentano i disagi sono sommerse da quelle di coloro che invece guardano i “trattori” con simpatia. Tranne che, troppo spesso, nei media, pronti a denigrare gli agricoltori tacciandoli per retrogradi in quanto rifiuterebbero limiti all’utilizzo di fitofarmaci. Per fortuna gli agricoltori Italiani intervistati hanno invece chiarito come la protesta nel nostro paese vuol difendere innanzitutto la specificità di un’agricoltura “colta” e condizionata da una biodiversità che porta eccellenza ma anche con un rovescio della medaglia non compreso dai burocrati europei e ancor meno da quelli di casa nostra.
di Walter Massa
Fortunatamente si vedono trattori in regola con il codice della strada e con la normativa di sicurezza sul lavoro che – ovviamente – sono molto costosi.
Qualcuno potrebbe obiettare “ma cosa hanno da lamentarsi se il trattore più economico non costa meno di 60.000 euro e molti valgono più di un appartamento in Versilia, ossia anche 350.000 euro!”
Bene, come – giustamente – si richiede il rispetto di rigorose (e costose!) norme nelle fabbriche, nei cantieri, nei ristoranti, nelle scuole, negli ospedali, nelle botteghe, nei magazzini, anche per il mondo rurale devono valere le stesse regole.
Perchè sicurezza e comfort costano.
L’imprenditore agricolo sa che “chi più spende meno spende” per proteggere la salute propria, dei trattoristi aziendali, delle coltivazioni, dell’ambiente e, in quest’ottica, spesso è costretto ad investire anche il proprio patrimonio ad integrazione delle agevolazioni – spesso inaccessibili ed incerte – dei piani di sviluppo europeo.
Dobbiamo decidere che partita deve giocare l’Italia nel 2024.
Se l’obiettivo è sviluppare una agricoltura di puro sostentamento, il fallimento è certo!
Tralasciando l’obbligo per noi italiani di sottostare a normative rigorose che molti Paesi non debbono applicare, con la fortunata conseguenza – per loro – di costi di produzione più bassi, basta concentrarsi sulla geofisica dell’agro italiano per capire le specificità dell’agricoltura nel nostro paese di cui si magnifica la straordinaria biodiversità dimenticandone però il rovescio della medaglia.
Se mettiamo a confronto Pianura Padana e Tavoliere delle Puglie con le immense distese ucraine, canadesi, americane, è subito evidente che non possiamo battere sul prezzo la concorrenza internazionale.
L’Italia ha sempre prodotto grano tenero, grano duro, latte, carne, ortaggi, cereali, frutta.
Dobbiamo continuare a scavare nel solco tracciato dai nostri nonni, ma dobbiamo agevolare la nascita, anzi la rinascita di quelle strutture artigianali che possono trasformare la materia prima in reali eccellenze del Made in Italy.
In buona sostanza bisogna riscrivere l’economia agricola ed artigianale in Italia. Dobbiamo far sì che le derrate agricole vengano conferite a opifici artigianali etici, funzionali e -perché no? – anche romantici, che sappiano davvero trasformare la materia prima a regola d’arte e secondo natura, e la facciano arrivare sugli scaffali delle botteghe di qualità di tutto il mondo che, a loro volta, celebrino come merita l’agricoltura di qualità pulita, etica e culturale.
Per ovviare alla fame nel mondo vi sono già le agricolture preposte…o, a dire il vero, che dovrebbero farlo perché in realtà in troppi casi creano sprechi nella parte privilegiata del pianeta sfruttando la terra che dovrebbe sfamare l’altra parte.
Intendiamoci – fame nell’altro emisfero a parte – in Italia l’economia agro industriale funziona, abbiamo imprese che sanno onorare l’Italia, l’italian genio, così come il genio dell’Homo sapiens di tutto il mondo, acquistando materia prima di qualità sui mercati internazionali.
Esempio virtuoso è la Ferrero di Alba che utilizza le nocciole intere delle Langhe, del Piemonte, per i prodotti di punta e più costosi. Per prodotti un tantino meno pregiati o anche più modesti (o peggio, nel caso per esempio della Nutella, se la osserviamo dal punto di vista etico ovvero nutrizionale considerandone il consumatore di riferimento, il bambino o l’adolescente N.D.R.) utilizza, fin che ce ne saranno, alcune tipologie di nocciole del Centro Italia, e poi arrivasui mercati del mondo, Turchia in primis.
Insomma, certa gente potrà anche permettersi un weekend a Parigi con mille euro e due spray per divertirsi a sabotare la Gioconda, ma se si arriva a manifestare (per ora civilmente) nelle piazze centrali delle grandi metropoli, lavorando (perché spostare con giudizio balle di fieno è fatica, utilizzo di intelletto, spirito di sacrificio e rischio di sanzioni), vuol dire che la pazienza è finita.
E poi non si sta ribellando solo un comparto agricolo, ma tutti i suoi produttori: dal frumento al latte, dalle barbabietole alla frutta, dalla carne agli ortaggi.
Siamo abituati alle manifestazioni rurali che contestano sanzioni o regolamenti restrittivi per un settore specifico (ad esempio quote latte, distillazione nel vino) o una malattia (aviaria, mucca pazza), ma che tutto il sistema agricolo manifesti non è certo per la noia (che nemmeno balla la cumbia).
La UE, i ministeri e gli assessorati competenti debbono capire e/o accettare che siamo nell’era della cosiddetta intelligenza artificiale, mentre si pretende di far navigare l’agricoltura ancora sull’Arca di Noè.
Da questo dramma epocale, sociale, economico e ambientale, in Italia – forse – si salva il mondo del riso, essendo in Europa per lo più concentrato in tre regioni italiane, con pochi gruppi industriali e molte piccole riserie artigianali che ne preservano la sostenibilità.
Diverso è il mondo del vino: la vedo abbastanza facile per le maison storiche, quelle che hanno avuto la fortuna e l’intelligenza di collegare almeno 4 generazioni, la vedo molto difficile per il vino sfuso, per gli imbottigliatori, per le cantine sociali da strapazzo (quasi tutte) e per gli improvvisati.
Di certo aziende etiche come Caviro e Ronco salveranno molti viticoltori, ma non tutti.
Gli agricoltori non chiedono altro che continuare a lavorare la terra nell’interesse di tutti per un cibo sano e per l’uomo e per l’ambiente…
… e la gente l’ha capito.
Gli agricoltiri italiani si sono ribellati tardi rispetto ai colleghi di altri paesi europei, ma l’hanno fatto per la loro specificità, anzi unicità, non solo per motivi economici.
E per i Vignaioli?
Purtroppo, pur se da oltre 15 anni sarebbero rappresentati da un’associazione, ovvero la FIVI (Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti), questa non è riuscita a regolamentare la figura del Vignaiolo differenziandola da quella del viticoltore.
L’uomo della strada sa benissimo la differenza tra imbianchino e pittore o l’albo degli avvocati non accetta l’iscrizione di un semplice laureato in giurisprudenza, invece l’immaginario collettivo confonde chi coltiva la vigna per conferire le uve a una cantina sociale o venderle con chi le coltiva partendo dalla bottiglia come obbiettivo per portare sul mercato un signor vino ottenuto dalle proprie uve.
Nella specifica protesta italiana di queste settimane, per quanto riguarda il mondo del vino i Vignaioli ne rappresentano in modo particolarmente significativo lo spirito e gli obbiettivi.
Walter Massa