Gli antichi Romani chiamavano Gallus gallinaceus il cappone perché avrebbe una sorta di istinto materno per i pulcini sostituendo la gallina; vero o falso che sia, sulla mensa di Natale è protagonista di un rito e fa pure la parte di “lei”, ovvero fa buon brodo. Però negli ultimi decenni questa tradizione di casa nostra è stata spesso soppiantata da quella d’Oltroceano e molte famiglie hanno scelto il tacchino. Intendiamoci, una tacchinella ripiena di castagne è tuttaltro che una brutta idea ma dobbiamo fare i conti con il mercato: che tacchino ci offre se ci rivolgiamo ai più diffusi punti vendita? Purtroppo si tratta troppo spesso di ibridi “industriali” allevati senza alcun rispetto né del loro benessere né della nostra salute perché nutriti con l’aggiunta di medicinali chimici pericolosi che finiscono pure nelle nostre pance. Se non conosciamo, quindi, un macellaio o un allevatore di assoluta fiducia, nel dubbio torniamo alla nostra tradizione e scegliamo il cappone, nome che per legge (Regolamento Ce n. 2067/1996) può essere attribuito solo a esemplari di polli, o meglio “galli castrati” di determinate razze allevati secondo regole ben precise e che ne garantiscono un maggiore benessere.
Nell’articolo che segue tutto ciò che c’è da sapere sul cappone.
Dal Rinascimento il gallo castrato è diventato una sorta di status symbol, il cibo delle ricche mense, il pollastro allevato come dono ai padroni o, come ben racconta Alessandro Manzoni nell’episodio dell’Azzeccagarbugli, a gente importante per ingraziarsela. E da qui è nata la tradizione del cappone e del brodo di cappone per il pranzo di Natale, il più importante dell’anno, quello che riunisce tutta la famiglia.
Tuttavia la triste “operazione” ha origini ben più antiche se non altro perché più galli nel pollaio lottano e, spesso, si uccidono, poi, in ogni caso, troppi galli stressano le galline, spesso uccidendole. E la povera vittima, privata dei testicoli e dei simboli della sua mascolinità, come creste e bargigli (in tempi antichi li castravano anche bruciando loro gli speroni), avrebbe trovato, secondo quanto racconta, per esempio, Alberto Magno, teologo e studioso tedesco del 1200, dottore della Chiesa venerato come santo protettore degli scienziati, altri modi per esprimere la sua affettività diventando un affettuoso protettore dei pulcini. Non un “pollo pedofilo”, intendiamoci, ma un gallo “effeminato” (così veniva definito) capace di sostituire la gallina come chioccia e guida, da cui il nome antico di Gallus gallinaceus.
Anche il nome cappone (latino capo) ha antiche origini, pare derivi dal greco kopto, tagliare, e il motivo è evidente. Gli antichi, comunque, non erano privi di attenzione alla qualità del buon cibo e non trascuravano affetto questo aspetto, tanto che già allora si “capponava” il gallo anche per motivi gastronomici, soprattutto perché il gallo, invecchiando, diventa duro e meno buono, il cappone, invece, può addirittura migliorare, almeno fino a 15 mesi di età.
Una garanzia di qualità
Venendo ai tempi nostri, cos’è oggi il cappone? Ci aiuta l’Europa a definirlo, con il Regolamento n. 543 del 16 giugno 2008, che disciplina produzione e commercio del pollame.
Così la norma definisce i capponi: animali di sesso maschile, castrati chirurgicamente prima che abbiano raggiunto la maturità sessuale e macellati a un’età di almeno 140 giorni; dopo la capponatura, i capponi devono essere stati ingrassati per un periodo di almeno 77 giorni.
Non è poco!
Sappiamo ormai tutto sulla crudele pratica di allevare i polli in spazi angusti e gonfiandoli per ottenere carni macellabili in 40 giorni/2 mesi. Il cappone invece – se commerciato con questa definizione – deve essere fatto crescere più lentamente. Ciò non toglie che c’è cappone e cappone: cambia la densità di allevamento, ovvero lo spazio che ha a disposizione, cambiano le razze, cambia la qualità dell’alimentazione.
E, purtroppo, non è facile riconoscere a vista il cappone più naturale allevato in modo estensivo con tanta terra a disposizione per razzolare, il cappone ruspante insomma: ma in tavola, poi, la differenza è più che evidente! Un aiutino per sceglierlo ve lo diamo nell’apposito capitoletto.
Il rito di Natale
Se il cappone, da simbolo stesso della fattoria all’antica, dove la donna di casa era chiamata pure “capponera” perché era maestra nella pratica manuale della castrazione, è diventato pure un prodotto consumistico proposto dagli allevamenti industriali è perché il cappone è il protagonista assoluto della tradizione natalizia, quella nostra. Il tacchino è un’”americanata”, un’alternativa al cappone ereditata dalla tradizione radicatissima in America del giorno del Ringraziamento.
Il cappone – rigorosamente ripieno – è addirittura il simbolo del pranzo di Natale, ma di quello “con i tuoi”, dove era il capofamiglia ad alzarsi e a tagliare il pollastro facendo le giuste parti di carne e di ripieno. Tant’è vero che in Liguria chiamano cappon magro e capponadda i piatti della vigilia (il primo con il pesce pregiato, il secondo di verdure con acciughe e tonno sott’olio), quando non si potrebbe mangiar di grasso, ovvero mangiar carne. Il cappone è un rito dunque, e non ha senso usare come ingrediente il busto senza testa e senza zampe proposto al super- mercato: nossignori, dobbiamo avere la bestia intera, anche se la nostra ricetta, nel nome di una innovazione non trasgressiva, dovesse prevedere il cappone disossato – e comunque ripieno – da fare arrosto o al forno.
Le zampe e la carcassa restano indispensabili perché il brodo di cappone fa parte del rito! Anche se non lo facciamo ripieno e bollito. Nel suo brodo, infatti, devono cuocere i tortellini o altre paste ripiene o i passatelli. O semplicemente viene ristretto come bevanda corroborante a metà pasto o a cena, la sera, quando il corposo pasto di mezzodì inevitabilmente prolungato fino a metà pomeriggio non ci permetterebbe di mandar giù altro.
Come scegliere il miglior cappone
- La presenza sulla testa di cresta e bargigli deve essere molto ridotta ed è la caratteristica esteriore inequivocabile, quindi conviene acquistare il capo integro e non a busto;
- Se cresta e bargigli fossero più appariscenti, sarebbe un “gallustro” (cappone mal riuscito);
- le zampe che lavorano per terra sono sporche, con unghie corte perché graffiano per ruspare: questo è un segno di coltura estensiva; i capponi industriali hanno le zampe intonse perché camminano e grat- tano su una lettiera asciutta, su trucioli; è un altro motivo per scegliere capponi con testa e zampe;
- la pelle non deve essere eccessivamente colorata di giallo: l’industria impiega frequentemente, almeno in certe regioni, coloranti nei mangimi per conferire alla pelle il giallo;
- la presenza di grasso è normale ma non deve essere eccessivo, lo si vede soprattutto nella regione della cloaca sottoforma di cuscinetti adiposi, anche nel sottopelle sul petto;
- la conoscenza diretta dell’allevatore può dare garanzie assolute: ogni capo dovrebbe portare applicato un tagliandino su cui è riportato il nome del produttore, se manca chiediamo il dato al rivenditore; questo può aiutare il consumatore a scegliere tra i produttori a carattere industriale o locale; per fare ciò ci conviene cercare in internet i siti dei produttori e leggervi le comunicazioni sui loro metodi di allevamento;
- la castrazione avviene chirurgicamente e i giovani castrati sono forniti agli allevatori. Per chi opera con la filiera completa, esistono anche tecnici che operano in azienda;
- i capponi di razze pure sono difficili da trovare, grandi aziende mettono sul mercato linee genetiche a varie taglie e l’allevatore sceglie a seconda delle esigenze dei suoi acquirenti, tuttavia ci sono razze locali citate nell’elenco dei PAT (Prodotti agroalimentari tradizionali) che si riescono a trovare nei loro territori: , spicca il famoso Cappone di Morozzo in Piemonte, poi, sempre in Piemonte, ci sono anche quelli di Monasterolo di Savigliano, di San Damiano d’Asti, di Vesime, in altre regioni vanno citati quello Friulano e quello Rustico o Nostrale delle Marche.